Oggi voglio raccontarvi una storia, la storia dell’ex Stabilimento Florio di Favignana, ma non vorrei solo fornirvi delle semplici informazioni anagrafiche. Come, per esempio, che lo stabilimento venne prima affittato e poi acquistato da Ignazio Florio nel 1874; che è una delle più grandi tonnare del Mar Mediterraneo con ben 32 mila metri quadri di superficie; che l’architetto ingaggiato dai Florio per ingrandire la struttura era Giuseppe Damiani Almeyda (1834 – 1911); che nello stabilimento veniva tagliato, cotto e inscatolato il tonno sott’olio; che nonostante non sia più in funzione e il cognome Florio si sia ormai estinto, rimane uno dei gioielli per eccellenza dell’architettura industriale.
Vorrei, invece, narrarvi la storia della mattanza e del commercio del tonno, della passata gloria favignanese, attraverso gli occhi e le parole di un uomo che all’epoca c’era, che ha vissuto quegli anni in prima linea, che ha manipolato le reti che venivano usate per pescare: l’ultimo rais, Salvatore Spataro.
Un rais era il capo della tonnara, il lavoratore più esperto che dirigeva gli altri.
Ma prima di diventare rais, Salvatore ha fatto la sua gavetta fin da quando era bambino, nel 1956/57: “Le aule erano poche e quindi i bambini non potevano andare tutti a scuola di mattina, quindi c’era chi andava la mattina e chi il pomeriggio. Io ero uno che andava di pomeriggio. E c’era chi la mattina andava dal barbiere, dal falegname, dal muratore, ma non per perdere tempo, ma proprio per lavorare. E io andavo alla Camparia.”
Salvatore comincia a raccontarmi la sua vita, mentre ci beviamo un caffè a casa sua, in compagnia di non so quanti gatti che circolano nel suo cortile. Ad ascoltarci c’è anche un piccolo uccellino che, stordito da un colpo dato al vetro della finestra, sta bevendo qualche goccia d’acqua dalla mia mano per riprendersi.
La Camparia non è la tonnara, ma l’edificio collocato proprio a un passo da Piazza Europa, una delle due principali piazze cittadine. Oggi è diventato un lounge bar/enoteca dove l’aperitivo o un drink dopo cena sono d’obbligo, ma una volta era il luogo dove si preparavano tutti i materiali che occorrevano per la mattanza dei tonni. Soprattutto, era il luogo dove si fabbricavano le reti, intrecciate con fili di noci di cocco, mi spiega Salvatore.
E lui, quando non era a scuola, imparava proprio come si facevano le reti, le piombature e tutto il resto, mi dice. Ciò, ovviamente prima che cominciasse la mattanza, tra maggio e giugno, il periodo più propizio per pescare i tonni, quando, seguendo le correnti da nord, si avventuravano in queste acque per accoppiarsi.

I tonni, tra l’altro, si riproducono senza contatto: nuotano in circolo creando un vortice denominato “vortice dell’amore”, dove seme e ovuli si incontrano per poi adagiarsi sul fondale.
Negli anni in cui Salvatore imparava tutto questo, veniva seguito dal rais Mercurio: “Quando compii 14 anni, che si poteva lavorare a 14 anni e ho fatto il libretto di lavoro, il 4 settembre del ‘63, mi ha fatto entrare in Tonnara. Eravamo in un angolo dentro alla Camparia, io ero con una barca. E lui mi fece ‘Vuoi venire a lavorare nella Camparia? A fare le reti.’. Io tutto mi sognavo, ma una cosa del genere… avevo vinto la Coppa Italia!” esclama Salvatore con l’emozione nella voce.
Appena iniziato a lavorare, Salvatore si era ritrovato a essere il più giovane. Era circondato da gente molto più in là con gli anni rispetto a lui. Tanti erano prossimi alla pensione.
E anche per questo, tra le varie mansioni assegnategli dai più anziani, c’erano anche quei lavoretti come andare a comprare le sigarette con 20 o 30 lire, andare a prendere una bottiglia di Chinotto e via discorrendo.
Ma Mercurio, era sempre lì, pronto a tenerlo d’occhio e a fornirgli consigli su come migliorare la sua manualità nel creare le reti, su come perfezionarsi per realizzare le piombature.
Salvatore, nel suo spirito adolescenziale, mentre gli anni passavano, non sapeva cosa pensare, perché il rais Mercurio non lo lasciava mai da solo, autonomo e indipendente. Ma il padre di Salvatore, esperto lavoratore, gli disse: “Fatti insegnare, perché significa che a te vuole più bene che agli altri.”. In poche parole: vedeva il potenziale. Anzi, in un modo o nell’altro, Mercurio aveva preso Salvatore un po’ come se fosse stato un figlio suo, perché i suoi, di figli, avevano scelto tutti di intraprendere altre strade nella vita, nessuno era rimasto alla Camparia.
E tutti questi insegnamenti continuarono anche quando il rais Mercurio si ritirò e passò il timone al rais Rallo: “Posso riconoscere un difetto di questa persona: che era troppo bravo.”, mi spiega Salvatore con un sorriso. Anzi, lo mandava anche a fare qualche lavoretto con i sottorais (o capiguardia, come si chiamano qua a Favignana), ovvero coloro che erano in lizza per il posto di rais, proprio perché degno di fiducia.
“Nel lontano ’85,” continua il racconto Salvatore “la ditta Parodi ha dato in gestione la tonnara a Nino Castiglione. E allora arrivava Nino Castiglione e cercava un rais nuovo.”

Il primo anno, mi spiega, il rais fu un certo Ernandes, con cui Salvatore aveva lavorato anche durante l’inverno in Camparia. Tuttavia, si ammalò di ulcera e per questa ragione, Castiglione ebbe bisogno di un altro rais.
“Allora, io gestivo il bar ristorante a Lido Burrone, assieme a mio nipote e mio cugino. E arriva Nino Castiglione con una persona di fiducia che io conoscevo bene. Arriva e dice: ‘Con lei devo parlare.’.” E dopo essersi seduto per mangiare qualcosa, visto che Salvatore era impegnato con gli avventori del locale, arrivò la fatidica richiesta: “Lei mi deve fare il rais.”. Salvatore, a quel tempo, aveva 36 anni.
Era scioccato da quella richiesta, perché esistevano già due sottorais che ambivano a quel posto e quel magnifico invito gli era capitato addosso come una bomba sulle spalle, anche per l’età: lui era giovanissimo, gli altri tutti anziani.
Ovviamente era felice, ma allo stesso tempo si rendeva conto dell’immensa responsabilità che gli toccava. Comunque, prima di rispondere, Salvatore decise di fare una visita sia al vecchio rais Ernandes, che al sottorais Angelo Ernandes: “Perché io ci tengo a sottolinearlo, sono una persona molto corretta.”
Chiese a entrambi se fosse stato un problema per loro accettare di diventare rais. Loro risposero di non preoccuparsi affatto, il primo perché era stato operato di ulcera e voleva avere una vita tranquilla e in salute senza troppo sforzo fisico, mentre l’altro non se la sentiva di sobbarcarsi cotanta responsabilità.
Fu così che Salvatore divenne rais, nel 1985.
Durante l’inverno erano in 14 o 15 persone a preparare tutti gli strumenti che sarebbero serviti per la mattanza e la tonnara. Infatti il rais non si sceglieva mai a giugno con l’arrivo dei tonni, ma l’anno prima, proprio perché era lui a condurre tutti i lavori invernali, in vista della mattanza, che sarebbe arrivata con l’estate.
Si pensava a tutto: l’altezza delle reti non veniva calcolata direttamente in mare, ma già nel magazzino e bisognava conoscere perfettamente il fondale. Il tutto doveva essere pronto entro aprile, il mese in cui si entrava in tonnara per poi andare a posizionare le reti in mare.
Nel 1987, sotto il comando di Salvatore, si pescò anche un grande squalo bianco. Ovviamente, non lo avevano cacciato apposta, semplicemente la meravigliosa bestia era stata attirata in tonnara dalla scia del sangue dei tonni. Era quindi rimasta intrappolata nello stabilimento e sarebbe morta comunque, perché non più in grado di uscire. Dunque si decise di porre fine alle sue sofferenze (perché allo squalo, uno squalo femmina, cominciava a mancare l’ossigeno). Le reti per pescare i tonni erano realizzate in modo tale che qualsiasi altro pesce più piccolo, che non serviva uccidere in quel momento, potesse dileguarsi tranquillamente: per gli squali, tuttavia, era diverso, naturalmente.

Certo, le gelosie nei confronti di Salvatore non sono mancate, come per esempio il dichiarare che il secondo anno, per pura sfortuna, pescò solo 250 tonni, senza menzionare, invece, la bravura dell’anno prima, quando sotto il suo comando, avevano pescato più di 1000 tonni e lo squalo bianco.
Salvatore lo dice: “Per simpatia nei confronti di uno o dell’altro, mettono le ali ai maiali e le tagliano ai gabbiani.”. Lo stesso “giochetto” avvenne quando Spataro divenne rais della tonnara di Bonagia, dove andò a lavorare nel 1997: il primo anno fu catastrofico, perché a causa delle fortissime correnti, non riuscirono a mettere le reti in mare, quindi i giornali lo stroncarono.
“Si fece pure una raccolta firme per farmi cacciare via, ma la ditta rispose. Dopo 12 anni che fai il rais, non è che non ne sei più capace. Sono andato avanti perché la ditta ha avuto fiducia in me, ho dimostrato di avere ragione.”.
Dopo diversi anni passati a Bonagia, dove Salvatore introdusse anche cambiamenti e nuove idee, nel 2004, a Favignana, stavano avendo delle difficoltà a posizionare le reti. Fu pregato di tornare: “Per il bene di Favignana, sono venuto.”
Le reti che avevano non bastavano. La camera della morte, ovvero l’ultimo tratto della particolare disposizione delle reti per i tonni, dove essi venivano uccisi, non era neanche pronta. Salvatore salvò la situazione e la mattanza ebbe luogo.
E mi spiega, mostrandomi un piccolo “plastico” in scala che ha in casa, se così si può definire, l’elaborato e geniale sistema di pesca del tonno con il posizionamento delle reti in mare. Un modellino riesumato per l’occasione da sua moglie: “Da Punta San Nicola (lato nord di Favignana, che si affaccia verso l’isola di Levanzo), andando verso Trapani avevamo 5 mila metri di reti. Ed era lo sbarramento dei tonni da nord verso sud. Praticamente, i tonni che da nord verso sud che beccavano questa rete, potevano andare sia verso Trapani che verso la tonnara di Favignana. Questo punto, posizionato verso terra, si chiamava campile e li riportava verso la tonnara. Andando avanti, l’entrata (del “corridoio” di reti per intrappolare i tonni) si chiamava bocca a nassa. Tante volte non è che vanno subito dentro, per via delle correnti e altre cose, quindi, in questo caso, costeggiavano e c’era il rivoto (o rioto), una cosa che serviva per farli rigirare dentro, verso la tonnara, e li incanala per farli tornare dentro.”.
Continua a spiegarmi Salvatore: “Quando arrivano dentro, ci sono le porte. La porta era aperta, con sopra una barca d’agguato (tutte barche senza motore o propulsione di qualche tipo, proprio per non rovinare le reti, ripassate con la pece e per questo completamente nere). Il rais era a bordo della muciara (la barca del rais) sulla porta successiva, ancora chiusa, che controllava. Quando i tonni entravano nella prima camera, che erano 30, 40, 50, 100, si decideva di chiudere la prima porta, tirando giù la rete verso il fondale.” E continua a raccontarmi che lo schema si ripeteva mano a mano, riempiendo ogni camera con quanti più tonni possibile. Come si chiudeva una, si apriva la successiva e si riempiva contemporaneamente una seconda volta la precedente, aprendo e chiudendo le porte, ognuna con un nome proprio (come “la bastardella”). Fino all’arrivo nella camera della morte. Quando questa si riempiva, la barca più grossa, lunga 22 metri, la trascinava all’interno dello stabilimento.
Tuttavia, quando Salvatore divenne rais, lo stabilimento era già chiuso, dal 1979 circa, quindi si portavano i tonni direttamente a Trapani.
Mi spiega anche che i galleggianti per segnalare la presenza delle reti in mare, siccome erano fatti di sughero, dopo venti giorni cominciavano ad affondare e occorreva sostituirli. Per segnalare la loro presenza e per far capire quanto fossero affondati, venivano poste sopra di essere delle vere e proprie palme!
E così è stato fino al 2006, l’anno dell’ultima mattanza, eseguita però non da rais Spataro, ma dalla cooperativa di quel tempo (su cui né io, né Salvatore accenniamo altro).
Ed è qui che si conclude la storia di Salvatore, che è stato così gentile e disponibile a coinvolgermi in questo tratto della sua vita, a espormi la verità, perché è stanco di sentire delle non-verità. E me lo dice sorridendo, puntando il dito sul tavolo, come se quella verità si nascondesse nella tovaglia, perfettamente stirata, della tavolata nel loro salotto.
E mentre lo ascoltavo non potevo che essere rapita dalle sue parole, perché in esse era custodita una storia fantastica, fatta di fatica, di sudore, di sangue e di salsedine. Una storia che rappresenta appieno la farfalla del Mediterraneo, che l’ha resa la regina delle isole Egadi e che ha portato Favignana a uno splendore senza eguali.
Una storia che rimane così impressa che anche se non c’eri, camminando per le stanze dell’ex stabilimento Florio, contemplandole in religioso silenzio, puoi sentire ancora le voci di tutti gli uomini al lavoro, facendo ciò che sapevano fare meglio di altri.
Sentendo l’eco delle strofe del canto siciliano dei pescatori durante la mattanza: “[…] Rispundimo tutti a vuci. O leva, leva, leva. Jamu suttu a caparazzu / Preparamudi puru l’uncini / Ammazzamu cento pisci / tiramu arrancata / Assaccamu cu la riffa […]”
Che tradotto vuol dire: “Rispondiamo tutti a voce. O leva, leva, leva. Diamoci dentro a capofitto. Prepariamo l’uncino, ammazziamo cento pesci. Tiriamo insieme. Colpiamo con l’arpione.”
[…] dettagliato, dove ho intervistato l’ultimo Rais ancora in vita e che potete leggere cliccando qui. Inoltre, ne ho scritto un altro sull’ex Stabilimento Florio, che potete trovare cliccando […]