Pochi giorni fa, alla pescheria Stella Maris di Favignana è arrivato un magnifico esemplare di tonno rosso di 183kg, pronto per essere dissanguato (un metodo per renderlo edibile) e venduto ai cittadini e ai vari esercizi commerciali dell’isola.

La regina delle Egadi si può vantare di una storia secolare, anzi millenaria, in cui la tradizionale pesca del tonno, nota come mattanza, ha svolto un ruolo cruciale sia dal punto di vista economico, che culturale e sociale.

Foto by Camilla Marino

Le ricette a base di questo celebre pesce si sprecano, essendo una carne dal sapore intenso e con grande apporto nutrizionale: essa è infatti ricca di proteine e grassi sani come l’omega-3. I tagli che arrivano sulle nostre tavole provengono da pescioloni con un peso oltre i 100kg.

Sebbene nel mondo esistano quattro specie di tonno (il rosso, il pinne gialle, l’alalunga e il tonnetto striato), nel Mar Mediterraneo si è sempre pescato maggiormente il tonno rosso.

L’estate è in genere il periodo dell’anno ideale per catturare questo animale, poiché si avvicina alle coste per procreare. A Favignana nello specifico, tuttavia, il momento più congeniale alla mattanza (termine derivante dal latino “mactare”, uccidere) era compreso tra aprile e fine giugno. Parlo al passato perché questa pratica non è più in uso ormai dal 2007, l’anno in cui avvenne l’ultima mattanza da parte dei tonnaroti dell’arcipelago egadino.

Tuttavia, non bisogna commettere l’errore di considerare questo genere di pesca come una tradizione folkloristica barbarica, nonostante la sua effettiva macabra spettacolarità.

Si trattava, in realtà, di un evento importantissimo, dall’aura religiosa e sacra per gli abitanti. Occorre porsi nell’ottica di una popolazione che ha sempre vissuto in condizioni piuttosto estreme, isolata dal mondo per secoli e dunque costretta all’autosufficienza.

In questo modo, la mattanza assumeva una connotazione pari quasi a quella di un rituale liturgico, dove le preghiere e i ringraziamenti a San Pietro erano d’obbligo. San Pietro non è un santo casuale, considerata la sua professione di pescatore. Ragion per cui, lungo le reti della tonnara, veniva affissa la croce di San Pietro, a mo’ di rito propiziatorio, con tanto di prete che dava la sua benedizione.

Ma la mattanza ha origini antichissime, derivanti dalle lontane terre arabe. I fenici erano maestri nell’arte della pesca del tonno e tramandarono il loro sapere in Sicilia e in Spagna intorno all’anno 1000. Fu così che la mattanza divenne parte integrante delle usanze regionali. La mattanza divenne una delle punte di diamante della Sicilia nel XIX secolo, quando la famiglia Florio si stabilì a Favignana per rendere la produzione del tonno sott’olio una vera eccellenza italiana.

Foto by Camilla Marino

Le acque della camera della morte, ovvero la parte finale delle chilometriche reti (potevano coprire un’area di circa 350mila metri quadrati), si tingevano del colore del sangue degli animali, mentre questi venivano arpionati dai tonnaroti, che agivano al ritmo delle cosiddette cialome, i canti incitati dal Rais (termine arabo che significa “capo”, appunto il pescatore capo), come “Ajamola!”, un canto anch’esso di origine araba. Possiamo dire che queste intonazioni avessero la stessa funzione di quelle melodie che si potevano sentire nelle piantagioni di cotone, dove lavorava la comunità nera.

La camera della morte era una sorta di quadrilatero chiuso anche sul fondale da una rete a forma di coppo (espressione con cui in lingua nostrana si designa un contenitore panciuto in terracotta utilizzato per la conservazione dell’olio). I tonni vi arrivavano passando per un ingegnoso sistema di reti da pesca doviziosamente preparate durante i mesi invernali (periodo dell’anno in cui vengono studiati il fondale, le correnti, la presenza di pesci e la posizione più adatta per immergere le reti), che costituivano vere e proprie “camere” di passaggio, con “recinti” e “porte” che venivano chiusi mano a mano per impedire la fuga. Ho scritto un articolo ben più dettagliato, dove ho intervistato l’ultimo Rais ancora in vita e che potete leggere cliccando qui. Inoltre, ne ho scritto un altro sull’ex Stabilimento Florio, che potete trovare cliccando qua.

In seguito, dopo essere stati arpionati e trascinati sulle barche, venivano portati nei pressi del malfaraggio, cioè il punto dove avveniva il passaggio dei tonni dalle imbarcazioni all’ex Stabilimento, dove venivano appesi a testa in giù e lasciati dissanguare. In effetti, il soprannome del tonno è “maiale del mare”.

Foto by Camilla Marino

A dire il vero, al contrario di quanto si possa presumere, la mattanza tradizionale era un metodo di pesca davvero sostenibile per l’ambiente: le reti venivano preparate appositamente per catturare solo i tonni e non i pesci più piccoli, così da non dover uccidere animali che “non servivano”. Tuttavia, qualche volta è capitato che gli squali bianchi morissero durante il processo, magari rimanendo intrappolati nella tonnara mentre inseguivano il sangue.

Oggigiorno, la mattanza rimane un lontano ricordo di un passato glorioso. Intorno al 2017 si tentò di riaprire i battenti dell’ex Stabilimento Florio per riprendere l’attività, investendo una cifra di circa 700mila euro per rinnovare la struttura. Malauguratamente, le quote tonno assegnate all’isola non furono sufficienti (un massimale di 100 pesci all’anno, per un totale di 14 tonnellate, contro i numeri più alti delle altre quattro tonnare nazionali presenti in Sardegna).

Non mi metterò a scrivere una diatriba politica sulla questione, poiché è un tasto dolente e delicato che merita di essere approfondito in un altro momento.

Vi lascio con un proverbio cinese: “Dai un pesce a un uomo e lo nutrirai per un giorno. Insegnagli a pescare e lo nutrirai per tutta la vita.”